L’intelligenza del cuore: gli Operatori Socio Sanitari di Auxilium si raccontano

La loro professione (ci sono più di 330 mila OSS in Italia) consiste nel garantire il benessere della persona assistita, che sostengono in tantissimi aspetti della vita quotidiana. In questa professione ci vuole tanta umanità, oltre che competenza.

L’OSS c’è sempre, perché si occupa dei bisogni primari del paziente, dell’igiene, dell’alimentazione, dell’aiutarlo a prendere le medicine o ad alzarsi dal letto, a seguire una terapia o ad entrare in sala operatoria, a partecipare ad un’attività riabilitativa o ludica, ad incontrare i familiari.
In generale gli OSS svolgono il loro lavoro sotto la supervisione dell’infermiere, ma il loro essere una presenza costante li rende anche un’antenna che capta i reali bisogni del paziente, le emozioni, gli stati d’animo, i desideri. Come raccontano tre operatrici socio sanitarie Auxilium: una svolge il suo lavoro a casa dei pazienti in Basilicata, una in ospedale a Roma e la terza in una RSA della Lombardia.


“La dote principale di un OSS è l’empatia – spiega Luisa, veterana dell’Assistenza Domiciliare Integrata di Auxilium nella provincia di Potenza – che ti permette entrare in contatto con la persona assistita e con il suo nucleo familiare.

All’inizio entriamo in punta di piedi nelle case dei pazienti e con discrezione cerchiamo di capirne le esigenze. Attraversare una porta non vuol dire solo entrare tra le pareti domestiche, ma entrare in sintonia con la vita della famiglia. Per imparare a leggere i segnali della sofferenza del paziente, ad esempio, è fondamentale ascoltare i familiari, tener conto di come loro si approcciano alla persona malata o disabile, i segnali che ricevono. Poi, oltre ad ascoltare, devi essere capace di farti ascoltare. Ho prestato servizio per molti anni anche in ospedale, ma mi piace molto di più l’assistenza domiciliare, dove diventiamo persone di famiglia, presenze riconoscibili e affezionate. Ci sono tanti pazienti che si aprono e ti raccontano la loro vita, ma forse il ricordo più carico di tenerezza è quello di un bambino che non poteva parlare, perché aveva una patologia grave, un aneurisma della vena di Galeno. Ci siamo presi cura di lui per un anno e mezzo e la cosa che mi emoziona ancora oggi è ricordare come mi riconosceva dalla voce e come, con dei piccoli movimenti, mi faceva capire che voleva venire in braccio, dove si rilassava davvero. Ci vuole tenerezza nella nostra professione e, un elemento che va sempre curato, è quello del collegamento con il resto dell’equipe sanitaria. Non si tratta solo di dar conto del proprio lavoro a infermieri e medici, ma anche di condividere le impressioni su come è stato il paziente quel giorno, eventuali miglioramenti o problemi. Nella nostra ADI si fanno riunioni anche su un singolo caso, c’è dialogo e confronto e, poi, c’è la coordinatrice Maria Rosaria Bellezza che ci tiene tutti uniti”.


Anche per Katia, OSS dell’Ospedale Bambino Gesù, l’empatia è fondamentale: “Questa professione ti deve piacere altrimenti non potrai mai capire gli altri.

Io l’ho scelta perché mi viene spontaneo voler aiutare le persone, inoltre adoro i bambini e lavorare in uno dei più importanti ospedali pediatrici del Mondo rappresenta un’esperienza straordinaria, non solo sul piano professionale”. Aggiunge Katia: “L’empatia è mettersi nei panni dell’altro, del bambino, ma anche dei genitori. A volte strappare un sorriso ad un papà o ad una mamma travolti dalla preoccupazione è importante quanto prendersi cura del loro figlio. Attualmente sono nel Reparto di pneumologia e fibrosi cistica, dove i bambini sono allettati, a volte hanno la cannula della tracheotomia o la maschera dell’ossigeno, quindi anche nei modi dobbiamo essere sempre attenti, gentili e premurosi. I bambini, anche se non possono parlarti, lo vedi dallo sguardo, dalla tensione del corpo, se si sentono sicuri e tranquilli, quando li muovi o gli fai le cure igieniche. Ci vuole anche esperienza per intuire se il bambino ha dolore, se piange perché si sente scomodo o perché è triste. Assistiamo minori che hanno pochi giorni di vita e adolescenti, ma e fin dal mattino presto, dando il risveglio e le colazioni, devi saper infondere positività. Siamo sempre presenti in reparto, per accudire i pazienti, ma anche per coccolarli. L’OSS è una figura indispensabile, dipendiamo direttamente dagli infermieri, ma interagiamo e collaboriamo con i medici e tutte le altre figure sanitarie. Ci siamo anche noi all’accoglienza in ospedale, per conoscere la storia del paziente, sapere cosa mangia e cosa no, le sue abitudini e ciò che gli piace. L’OSS è lì quando i genitori vedono il figlio entrare in sala operatoria. L’esperienza che fai qui ti resta dentro, così come il sorriso di ogni bambina e bambino che viene dimesso e torna alla sua vita. Ma, forse, uno spazio speciale lo lasciamo a quei piccoli che non ci sono più: in corsia comprendi il senso della vita, che è bella e preziosa sempre. Nella vita di tutti i giorni siamo distratti e non pensiamo a ciò che conta davvero. In corsia, invece, puoi scoprire cos’è l’umanità”.



Olga lavora nella RSA del Centro Girola della Fondazione Don Gnocchi a Milano. A lei abbiamo chiesto che rapporto si instaura con gli ospiti delle Residenze Sanitarie Assistenziali, in maggioranza anziani vulnerabili, che vivono in struttura per molto tempo, in quanto affetti da malattie croniche o disabilità severe:

“Entrando in RSA si respira un’aria di famiglia, dove ogni persona si sente accolta e voluta bene. Ma il primo sentimento che dobbiamo suscitare nei pazienti e nei familiari è quello della fiducia. È attraverso la fiducia che si crea un legame forte, di affetto”. Ogni paziente ha un suo carattere, una sua storia, delle sue problematiche, voi come ne tenete conto?: “Un piccolo esempio: c’è un’anziana signora che è sorda e rischia di chiudersi in se stessa, ma la facciamo sentire protetta e accolta attraverso un sorriso o un abbraccio. Quello degli abbracci e dei sorrisi è una ‘terapia’ che dà grandi risultati. Mentre mi prendo cura delle persone ospiti della RSA, molte volte mi rendo conto che è quasi più importante ascoltarle, raccogliere i loro pensieri, le emozioni, i ricordi, le loro opinioni. Certe volte questo manca anche in famiglia: quando c’è una persona malata, ci preoccupiamo di farla mangiare, di pulirla, di fargli seguire la terapia, di farla visitare, ma ci dimentichiamo di ascoltarla, di interessarci a ciò che ha nel cuore. Per far capire quanto sia importante conoscere le persone delle quali ci prendiamo cura racconto un altro caso: mi piace la musica classica e alcuni giorni fa, mentre accudivo una signora anziana molto malata, che non riesce a rilassarsi, le ho fatto ascoltare un brano di Mozart e si è tranquillizzata subito, raggiungendo una serenità incredibile. L’ho raccontato alla figlia, la quale mi ha detto che la mamma è sempre stata appassionata di Mozart e che l’ascoltava continuamente a casa, soprattutto mentre cucinava e sbrigava le faccende domestiche. Da allora ogni giorno facciamo ascoltare alla signora qualche brano della sua musica preferita e vediamo bei progressi.”.
Il Centro Girola è una delle strutture più famose della Fondazione Don Carlo Gnocchi, cosa significa lavorare qui?: “È sicuramente una bella esperienza e c’è suor Angela che ci fa sentire tutti parte della missione del fondatore. C’è sintonia tra Auxilium e la Don Gnocchi: quando la cooperativa ha iniziato il suo servizio al Girola io già lavoravo nel reparto Alzheimer, ma mi sono sentita subito accolta e ho percepito quanto tenessero a noi operatori e agli ospiti. Per questo mi riconosco molto nello slogan di Auxilium ‘vedere l’aspetto umano ovunque è il nostro mestiere’”.