I bambini lo sentono quando sono in buone mani. Ed è meraviglioso quando un piccolo o un adolescente recuperano o conquistano per la prima volta la capacità di fare un movimento, un’abilità cognitiva, uno spazio di autonomia. Perché non c’è nulla di più prezioso del sorriso di un bambino che raggiunge un traguardo, soprattutto se sta vivendo una condizione di sofferenza a causa di una malattia, di una disabilità o di un trauma. Lo sanno bene i terapisti dell’Ospedale Bambino Gesù, che aiutano ogni giorno centinaia di piccoli pazienti nella riabilitazione. lavorando insieme alle altre figure professionali sanitarie, nell'Ospedale della Santa Sede.
Cosa vuol dire per un terapista prendersi cura di una persona nell’età evolutiva, ovvero dalla nascita all’adolescenza? Racconta Sarah Mancarella: “Vuol dire dare al bambino o alla bambina gli strumenti per poter avere una qualità di vita migliore e insegnare ai genitori come gestire il figlio nella vita quotidiana. Questo vale sia nei casi nei quali può esserci un pieno recupero, sia nei casi di invalidità permanente. Certo è differente insegnare delle abilità ad un bambino che è nato con un problema rispetto ad uno che deve recuperare da un danno acquisito, ma essere partecipi della loro gioia per un traguardo raggiunto è sempre emozionante.
Ma un bambino come reagisce al trauma? Riprende Sarah: “I bambini hanno una forza d’animo che sorprende ogni volta. Sono loro che, con la loro capacità di ripresa, danno a noi fiducia e forza. Una cosa importante, però, è dar loro un supporto anche quando escono dall’ospedale, perché sono comunque nell’età evolutiva e hanno bisogno di tempo per elaborare un trauma o una malattia. Sono aspetti emotivi dei quai si prende carico lo psicologo ma anche noi terapisti, che siamo a contatto per tanto tempo con il paziente e i suoi familiari, dobbiamo tenerne conto. A volte ad un minore riesce ad elaborare una sofferenza più facilmente in ospedale che a casa, perché qui ha tante persone intorno che si prendo cura di lui, mentre quando esce può avere all’inizio un senso di spaesamento e di solitudine”.
Lavorare con un bambino comprende, per forza di cose, la collaborazione con i genitori. Conclude Sarah: “Naturalmente è necessario sia coinvolgere i genitori nella cura quotidiana del piccolo paziente, sia accogliere le preoccupazioni delle mamme e dei papà che si trovano con un figlio che ha dei problemi dalla nascita o che ha subito dei traumi a causa di un incidente o di una malattia. Una delle cose che mi piace di più del mio lavoro, ad esempio, è vedere la contentezza dei genitori, non solo al momento delle dimissioni, ma anche quando, durante le giornate in ospedale, ti ringraziano perché hai insegnato loro qualche manovra per gestire meglio il figlio”.
Anche Emilia Salzano è una terapista di neuropsicomotricità e per lei la chiave di volta è trovare la strategia giusta per ogni bambino, così da metterlo in condizione di essere autonomo: “Ovviamente dipende dalla gravità del paziente, per qualcuno anche spingere un tasto durante un gioco di abilità o muovere un passo autonomamente è una grande conquista. Ogni bambino è diverso e la nostra soddisfazione più grande è nel vederli raggiungere degli obiettivi, grazie ai quali riescono a comunicare, muoversi, sentirsi meglio con se stessi e vivere il mondo intorno a loro. Ho sempre voluto lavorare nell’ambito della pediatria e quello che mi piace della riabilitazione è la concretezza dell’aiuto che dai al paziente con le tue mani”.
Come affronta un bambino la sua malattia o la sua disabilità? Risponde Emilia: “C’è una differenza tra un bambino che nasce con una patologia e uno che invece l'ha acquisita. E, naturalmente, c’è differenza come ne prende coscienza un bambino piccolo o l’adolescente. In ogni caso è importante la relazione che viene stabilita con il paziente, perché all’inizio tutti possono essere spaventati e chiusi. Nei bambini, ad esempio, è importante il coinvolgimento attraverso il gioco, che favorisce il recupero di una funzione persa o la scoperta di un’abilità che non sapeva di avere. Per un adolescente, invece, è importante la fiducia che ripone in noi e in tutte le persone che si prendono cura di lui in ospedale”.
“Anche la famiglia influisce molto – interviene Sebastian Miccio, fisioterapista - perché se il bambino si accorge che c’è ansia e stress nei genitori avrà più problemi nel recupero. Per questo, come è stato detto, prendersi cura di un bambino vuol dire prendersi cura anche della famiglia, che per forza di cose, soprattutto nei casi più gravi viene catapultata in una nuova vita. I genitori hanno bisogno di essere considerati, ascoltati e coinvolti”. Aggiunge Sebastian: “Per trovare un contatto con i nostri piccoli pazienti ci vuole una preparazione importante, che parte dal capire bene ogni volta la situazione che abbiamo di fronte. Trovata la chiave per entrare nel cuore del bambino diventa straordinario lavorarci. Dopo una operazione invasiva, ad esempio, per prima cosa è necessario aiutare i bambini a superare la paura del movimento e questo vale sia quando seguiamo la riabilitazione per interventi che prevedono un ricovero di una settimana, che in quelli che necessitano di ricoveri molto lunghi, come gli interventi alla colonna vertebrale. In questi casi ci sono famiglie che diventano parte della nostra routine e che considerano il reparto dell’ospedale una seconda casa, tanto che quando il bambino viene dimesso, insieme alla contentezza, provano un senso di timore nel tornare alla loro vita di tutti i giorni, anche se le terapie continuano a casa. Naturalmente noi siamo i primi a dire ai pazienti e alle loro famiglie che l’ospedale è stata solo una parentesi, ma essere considerati una casa è anche una bella soddisfazione”.
L’Ospedale Bambino Gesù si prende cura anche di tanti bambini malati o feriti che vengono dall’estero, da zone di guerra o da Paesi poveri. Che esperienza è per voi terapisti?
“Certo in questi casi c’è sempre un coinvolgimento emotivo forte e bisogna saperlo gestire per operare al meglio. Sono situazioni delicate, dove entri in contatto con esperienze, drammi, problemi, culture diverse che sembrano lontane da noi e invece non lo sono. Lavorare al Bambino Gesù ti mette davanti alle piaghe del Mondo e ti fa capire tante cose. Recentemente in reparto abbiamo avuto due bambine ucraine, che a causa delle ferite riportate durante i bombardamenti erano state amputate. Entrambe erano anche rimaste orfane di uno dei due genitori e aver aiutato sia loro che i genitori sopravvissuti a recuperare la voglia di vivere è stata per un’esperienza importante, non solo dal punto di vista professionale. I bambini a volte hanno una capacità di recupero straordinaria, ne ricordo con tenerezza uno, che era stato portato qui dalla Libia perché a causa di un incidente domestico era rimasto ustionato su tutto il corpo. Nell’esplosione della casa era morta la mamma e lo venne a sapere da noi. Una situazione complicata e i primi giorni fu difficilissimo, superare le sue paure, la diffidenza e la sofferenza che gli dava ogni piccolo movimento. Durante i mesi di degenza è tornato a camminare e alla fine giocavamo insieme a calcio in palestra”.
Dal punto di vista di un terapista com’è lavorare al Bambino Gesù? “Qui c’è un’assistenza a 360 gradi e grande interazione e collaborazione tra le figure sanitarie, dal primario al medico, dall’infermiere al terapista, dal tecnico all’oss. C’è una grande professionalità e organizzazione. A volte si fanno riunioni ad hoc su un singolo paziente per tracciare la strategia giusta o fare il punto della situazione, ma nulla è lasciato al caso. Ma a volte penso anche all’importanza di piccoli gesti, come quando finito il turno, prima di andare via, passiamo nelle stanze dai nostri piccoli pazienti, per un saluto, un sorriso, per un aiuto a trovare la posizione giusta nel letto. Capita spesso e mi ricorda quello che fanno i papà e le mamme quando la sera rimboccano le coperte ai loro bambini prima che prendano sonno”.