Via Crucis al Cie di Ponte Galeria

Cie, la Via Crucis degli immigrati

AVVENIRE - ROMA, 23 Marzo 2013 - A portare la croce è un giovanotto in tuta. «Abbi pietà di noi», invoca il sacerdote, durante la Via Crucis. Nulla di strano, in questa liturgia pasquale. Se non fosse che le panche della cappella sono imbullonate al pavimento. E fuori è tutto un labirinto di sbarre e recinzioni appuntite.

Benvenuti nel Cie di Ponte Galeria, il centro identificazione ed espulsione della Capitale. Un luogo che per tanti immigrati è davvero una stazione nel calvario del loro percorso migratorio: anticamera all’espulsione forzata e fine di un sogno, o inutile condanna per chi non riuscirà ad essere identificato e rientrerà nel giro dell’irregolarità.

La Caritas di Porto-Santa Rufina è qui «per testimoniare la vicinanza della Chiesa a uomini segnati da un’esperienza di solitudine e di sfiducia», dice il direttore della Caritas diocesana don Emanuele Giannone. Ed è qui come primo esordio pubblico Paola Varvazzo, assessore alle politiche sociali della nuova giunta regionale del Lazio di Nicola Zingaretti. La presenza della Varvazzo tra queste mura in realtà non è una novità, visto che - come vice prefetto aggiunto - s’è occupata per anni di immigrazione. «Torno qui in veste diversa ma con lo stesso affetto di sempre», dice agli “ospiti” del Cie.

Il Cie di Ponte Galeria può ospitare fino a 250 persone. In realtà le presenza sono molto più basse: «Oggi ne abbiamo 126, di cui 52 donne e 74 uomini», spiega il direttore Pino Di Sangiuliano della cooperativa Auxilium che gestisce con passione e umanità la struttura con 75 operatori specializzati e 15 medici presenti 24 ore al giorno. «Grazie a loro ora, assieme ad altre realtà umanitarie, finalmente abbiamo accesso e spazi al Cie», conferma don Giannone.

Oltre alla cappella c’è una moschea, il 70% sono nordafricani. «È un luogo inutile - dice il sacerdote – anche solo per quanto costa». La legge fissa fino a 18 mesi il trattenimento, ma dopo sei o si è identificati oppure si esce. «Ma qui non possono fare né laboratori, né corsi. La polizia qui non entra e il personale non può garantire l’ordine pubblico. Chi viene dal carcere, dice che il Cie è peggio. Si, perché la maggioranza viene da lì: dopo anni non sono identificati. E una volta liberati, invece che espulsi, sono di nuovo rinchiusi. Possibile non esista una soluzione diversa?».